Sono oltre trent’anni che scrivo sui giornali.
Il mio primo articolo lo pubblicai a sedici anni e uscì, senza firma, per il quindicinale L’Ora del Salento; poi ho proseguito per tante e tante altre testate, italiane ed estere, fino ad arrivare a oggi. Qui, ora. Ho sempre cercato di costruire qualcosa, di andare oltre alla cronaca, anzi superando il concetto di cronaca e di andare oltre: proporre, agire, fare, costruire.
Avevo intenzione di scrivere oggi alcune brevissime riflessioni, che vogliono rimanere tali: brevi, appunto. Così talmente scarne da richiedere in verità il vostro diretto contributo, ammesso che abbiate ancora pazienza di riflettere e dare risposte oneste. Ma credo sia chiedere forse troppo, ai più piace oggi lamentarsi, protestare, indossare i panni di chi vive un disagio perenne. Nessuno però oggi vuole più riflettere, si cerca di sopravvivere protestando e invocando aiuti esterni, questuando aiuti alla politica.
Così, più che una riflessione vuole essere una provocazione in forma di domanda: perché, secondo voi, quando il tema è l’agricoltura si parla e si scrive sempre di crisi?
A parte una nota organizzazione di categoria, che alterna momenti di estrema euforia a piagnucoli adolescenziali, ogni persona che opera in campo agricolo associa sempre, in Italia, l’agricoltura alla crisi, a momenti di grande depressione, a una sensazione di forte disagio e a molto altro ancora, sempre in chiave negativa.
Ecco: perché? Perché si parla sempre di crisi?
Non mi mancano certo le risposte, visti i miei tanti articoli sul tema, in cui sono stato fin troppo esplicito nelle argomentazioni, ma la mia provocazione sta proprio qui: nel chiedere a voi, proprio a voi, le risposte, perché il guaio dell’Italia agricola sta proprio nel non darsi risposte vere, sincere, che non risparmino assunzioni di responsabilità.