Agli inizi degli anni ‘80, Michele Bellomo e Paolo Perulli, rispettivamente assessore e coordinatore all’agricoltura della Regione Puglia, insieme col prof. Massimo Bartolelli, economista dell’Università di Bari, prospettarono la possibilità, molto ben presentata, di innovare la frutticoltura pugliese con l’introduzione di colture da loro definite “alternative” o “esotiche”.
Quella proposta prevedeva la diffusione in Puglia di specie arboree da frutto che sarebbe stato meglio definire, con termine più appropriato anche se meno suggestivo, “tropicali”. Nel presentare l’ambizioso programma sul Notiziario Agricolo Regionale, organo dell’Assessorato, l’assessore Bellomo scrisse d’essere tanto sicuro della bontà dell’idea da ritenere una perdita di tempo fare precedere l’introduzione delle colture proposte da una lunga e inutile sperimentazione. Vista la mancanza dall’elenco di ananas e banano, i due principali fruttiferi tropicali, il programma prevedeva la diffusione acritica in Puglia di specie che potremmo oggi definire “minori” o di “nicchia”, come annona, babaco, avocado, litci, mango, papaya, passiflora ecc. Nonostante l’autorevolezza dei proponenti, il piano si risolse in un totale fallimento.
A proposito di clima, ricordo che quello adatto per le specie di cui stiamo scrivendo è il clima tropicale, presente nella fascia del globo terraqueo compresa tra l’equatore e i tropici del cancro e del capricorno, cioè tra 0° e 23° di latitudine sud e nord. In quella fascia, in tutti i mesi dell’anno latemperatura media non è mai inferiore a 18°C con distribuzione delle abbondanti piogge annue (circa tre volte quelle mediterranee) in modo più o meno uniforme.
Il clima tropicale si caratterizza cioè per il regime delle piogge, l’elevata umidità e la costanza delle ore di luce/giorno. Caratteristiche del nostro clima, di tipo temperato con estate secca, sono inveceil succedersi delle stagioni (calda, intermedia, fredda) con diversa lunghezza delle ore di luce/giorno e precipitazioni scarse e concentrate tra autunno e inverno. Come risultato dell’adattamento all’ambiente, i fruttiferi tropicali sono privi di meccanismi o organi in grado di prepararli e proteggerli da abbassamenti termici e sono perciò molto sensibili al freddo, tanto che alcuni possono essere uccisi da temperature non necessariamente sotto zero, ma anche tra 0 e 8 gradi centigradi.
La Puglia, geograficamente compresa tra 41,5° e 39,7° di latitudine Nord si colloca perciò al di fuori della fascia tropicale non di pochi gradi: mancano le abbondanti precipitazioni, gli elevati tassi di umidità relativa e la costanza termica. È vero che gli inverni mediterranei sono in generemiti (almeno nelle zone costiere), ma non si possono escludere minime termiche al di sotto di zero. Nemmeno in Salento.
Ricordo che, nel corso della mia attività di docente, parlando del clima del “tacco” d’Italia, paragonavo quel territorio alla tolda di una portaerei, privo di alture e/o ripari e perciò esposto a tutti i venti, di tutti i quadranti, in tutte le stagioni. Ma che importa, potrebbe dire qualcuno, alle carenze di acqua e temperatura si può porre rimedio con maggiori disponibilità irrigue e con la protezione delle colture con serre riscaldate. Tutti accorgimenti che, soprattutto le serre riscaldate, fanno salire i costi. Se poi aggiungiamo il controllo del fotoperiodo, i costi salgono ancora. E non metto in conto le offese portate al paesaggio dalle strutture per proteggere/forzare le produzioni. C’è poi da tenere conto dell’altezza che raggiungono alberi adulti di mango, litci e papaya (il biotipo non nano) per cui i costi per realizzazione e funzionamento di adeguate protezioni rischiano di diventare esorbitanti.
All’epoca della prima proposta, solo una specie godette di effimero successo, in particolare in provincia di Bari: il babaco (nome botanico Carica pentagona), novità frutticola assoluta. La diffusione del babaco fu dovuta non tanto alla Regione Puglia, che pure la portava in elenco tra quelle da diffondere, ma all’intraprendenza di un piazzista indipendente di cui, francamente, non ricordo il nome. La reclamizzazione risultò molto lusinghiera grazie anche ad una assai accattivante proposta. Ne furono esaltate l’eccezionale precocità di entrata in produzione, le straordinarie produzioni per ettaro e le ottime prospettive di mercato dei frutti della specie, di cui quel piazzista assicurò il ritiro a prezzi mirabolanti. Fu un buon fiorire di piantagioni di babaco, in particolare in terra di Bari. Precocità e produttività furono confermate, ma ci si accorse anche che per consentire al babaco di sopravvivere e produrre si doveva ricorrere a serre riscaldate, cosa che alcuni imprenditori fecero. Il brutto venne quando colui che aveva assicurato il ritiro della produzione si dette alla “latitanza” e i tentativi dei singoli di collocare il prodotto sul mercato si risolsero in un totale fallimento per le scadenti caratteristiche organolettiche dei frutti. Nel volgere di un quadriennio, il fenomeno babaco era bello e finito.
Quanto alle altre specie tropicali incluse nel programma della Regione Puglia, non si è mai avuto notizia alcuna sulla loro diffusione e sugli eventuali esiti della loro introduzione in regione.
La proposta Bellomo-Perulli-Bartolelli ebbe respiro e ambito locale: di essa poco si seppe al di fuori dei confini regionali. A distanza di poco più di trenta anni, l’idea d’introdurre specie tropicali in Puglia fa di nuovo capolino. Questa volta il punto di partenza ha un nobile intento: quello di concorrere alla ricostituzione dell’ambiente e dell’agricoltura del Salento devastati da Xylella. A differenza dalla precedente, l’odierna proposta ha avuto risonanza nazionale, anche a giudicare dall’importanza ad essa dedicata dalla la stampa generalista e di settore: essa è stata infatti avanzata a Roma, alla XIII Commissione (Agricoltura) della Camera dei Deputati dal Presidente pro-tempore della sezione Frutticoltura della Società Orticola Italiana (SOI).
Il succo è ancora una volta quello della ripetizione acritica della prima proposta. È utile perciò aggiungere che, forse, non sono soltanto le temperature minime invernali che devono preoccupare, ma anche quelle primaverili e estive coincidenti, insieme con bassi livelli di umidità relativa, coi complessi fenomeni fisiologici e biologici di quelle specie, come, ad esempio, formazione di gemme fiorifere e di fiori, impollinazione, fecondazione, accrescimento, maturazione e qualità dei frutti maturi. Senza mettere in conto le abbondanti risorse irrigue di cui quelle specie hanno bisogno.
Ripeto oggi quello che dissi oltre trenta anni fa e cioè che, secondo il mio pensiero, i problemi dell’arboricoltura pugliese avrebbero potuto trovare soluzione più che in colture alternative, in un modo alternativo di coltivare quelle tradizionali. Allora mi riferivo a mandorlo, ciliegio, vite da vino, vite da tavola. Capisco che, oggi, pensare di diffondere mandorlo e ciliegio in Salento è strettamente vietato, vista la sensibilità delle due drupacee a Xylella. Mi si potrà anche obiettare che esempi della presenza di specie tropicali in Italia non mancano anche se concentrati in Sicilia.
All’obiezione io rispondo che: 1) la presenza di esemplari di specie tropicali in Sicilia si spiega col fatto che quella splendida isola si estende tra i 38,6°N di Messina ai 36,4°N di Capo Passero (Ragusa) e quindi a latitudini più basse e clima più mite di quelli della parte terminale della Puglia, il Salento; 2) una cosa è parlare di presenza di specie tropicali, altra cosa è parlare della loro coltivazione su larga scala. Stesso discorso credo si possa fare anche per la Calabria, dove le uniche due specie che sembrerebbero aver dato risultati incoraggianti in piccole aree con microclima particolarmente adatto nel sud di quella regione sono due specie ancora “più minori” (si può dire?) tra quelle “minori” elencate in apertura e cioè annona e passiflora. Intendiamoci, forse anche in Puglia esistono esemplari di quelle specie, ma si tratta di singoli esemplari aiutati a crescere (ma a produrre?) con esposizione a Sud e al riparo dai venti da Nord.
Mi permetto informare che la superficie salentina devastata da Xylella non è inferiore a 50-60.000 ettari. Perciò, se si vuole proporre la sostituzione (anche parziale) dell’olivo con le colture tropicali, questa dovrebbero finire per incidere sul Pil agricolo di quella provincia. Il che significa che con dette colture dovrebbe essere coperto almeno il 20% (~1.000)del territorio “liberato” dall’olivo. La qual cosa mi sembra realisticamente impossibile. Se la copertura dovesse riguardare meno del 20% la cosa diventerebbe irrilevante.
Ai sostenitori della proposta in Salento direi tuttavia di non disperare, ma di avere pazienza e attendere che il riscaldamento globale abbia assunto fisionomia tanto chiara e irreversibile da consentire la diffusione tranquilla di mango, papaya, litci ecc. Purtroppo – ripeto – non è possibile ridurre le esigenze di quei fruttiferi al solo soddisfacimento delle esigenze termiche, ignorando l’importanza, ad esempio, del fotoperiodo e dell’umidità relativa. Inoltre, mi viene in mente che, se tanto mi dà tanto, la tranquilla salita di specie tropicali alle nostre latitudini, dovrebbe portare di conseguenza ad uno slittamento delle nostre colture tradizionali a latitudini maggiori. Perché non pensare allora all’olivo in Germania? Esagero? Forse.
Un’ultima annotazione, questa volta più seria: siamo sicuri che le specie tropicali che s’intenderebbero introdurre (mi auguro non solo le citate mango e avocado) siano tutte resistenti a Xylella?
Versione ampliata di un articolo del professor Angelo Godini, pubblicato sulle pagine de “La Gazzetta del Mezzogiorno” il giorno 11 ottobre 2018, a pag. 19, con il titolo “Piante tropicali nel Salento? No”. Per gentile concessione dell’Autore.
L’illustrazione di apertura riprende una carta geografica del Settecento